Selezione Hip Hop di Ottobre
Abbiamo preparato delle brevi recensioni per guidarvi all’ascolto di alcuni dei migliori progetti Hip-Hop del mese, selezionati per voi dalla redazione di Throw Up Magazine. Sintonizzatevi sulle nostre playlist di Spotify e… Buon ascolto!
Poco più di 20 anni fa, mentre il mondo si avvicinava alla temutissima fine del millennio, sul finire del 1998, un Busta Rhymes nelle vesti di Nostradamus o di un cavaliere dell’apocalisse, profetizzava un evento di estinzione di massa con il terzo album della sua carriera “Extinction Level Event: Final World Count”. Per fortuna del genere umano, allora si sbagliò, anche se il disco ottenne grande successo e lanciò definitivamente la carriera del rapper di Brooklyn dalle origini jamaicane. Vent’anni dopo, Busta Rhymes non poteva scegliere momento migliore (o peggiore) per pubblicare il sequel di “Extiction Level Event”, sottotitolato “The Wrath of God” ovvero “L’Ira di Dio”. Titolo non fu mai più azzeccato, visto il momento storico, con il globo sull’orlo del caos e nel pieno di una pandemia globale. Busta Rhymes, come l’apostolo Giovanni, profetizza l’Apocalisse e invoca il Giudizio Universale, almeno, speriamo, solo per quello che riguarda l’industria dell’Hip Hop. Infatti, il ritrovato Busta ritorna con il botto, incenerendo tutti i 22 brani del disco, distruggendo gli infedeli che lo davano per musicalmente “morto” e seminando panico e tormenti tra la moltitudine dei rapper scarsi che popolano la scena. Non solo, “E.L.E 2” è un’amara considerazione su questo infausto periodo storico e le contraddizioni che ci hanno fatto fare un passo verso l’Apocalisse, scatenando l’ira di Dio. Busta Rhymes, membro dei 5 Percenters della Nation of Islam, ha scomodato anche il maestro del microfono Rakim e, il Ministro Farrakhan, per avvisare tutti noi, attraverso la Suprema matematica del suo formidabile Rap, del precipizio che ci attende…
È meglio essere al vertice delle classifiche e sulla bocca di tutti per una manciata di anni, o avere una prolifica carriera decennale come quella di Smoke DZA? Noi non abbiamo dubbi. Si, perché il rapper di Harlem, NYC, fin dalla fine degli anni 2000, con diverse decine di progetti alle spalle, tra album ufficiali e mixtape, attraverso una crescita costante e naturale, ha piantato saldamente le sue radici nella scena Hip Hop della Grande Mela e, oramai, da diversi anni, è diventato una realtà solida e fiorente all’interno della giungla discografica newyorkese. Quando nutri le tue radici organicamente e naturalmente, con pazienza e costanza, senza additivi chimici e forzature, come ha fatto Smoke Dza nel corso della sua lunga carriera indipendente, il tuo raccolto fiorirà regolarmente, in maniera sana e genuina… È il ciclo della vita, e l’MC di Harlem, che ha sempre dimostrato, anche con la sua musica , di amare particolarmente le piante di cannabis, tanto da ritagliarsi un fiorente brand a tema (e la piattaforma “The Smokers Club”), lo sa bene. Grazie, anche, ai rapporti che Smoke DZA ha saputo intrecciare naturalmente con alcuni dei migliori rapper e produttori della scena, possiamo, dire che l’ultimo frutto del suo lavoro musicale, intitolato, appunto, Homegrown (che vede la partecipazione tra gli altri di Jadakiss, Cam Ron, Wiz Khalifa, Curren$y e Big KRIT) sia, forse, tra i più maturi e succosi che abbia mai offerto.
Era tra il 2015 e il 2016 quando ascoltammo per la prima volta una strofa di Benny The Butcher. Si trattava, di uno dei primi album di Conway o Westside Gunn come Griselda Records, rimanemmo folgorati: la sensazione era quella di trovarsi davanti ad una scoperta eccezionale, un talento fuori dal comune, che parlava con naturalezza e sincerità di cose che il 99% dei rappers, anche di successo, solitamente abbozza e stilizza. Dai dettagli dei suoi racconti, si sentiva ancora la puzza di strada, eppure c’era qualcosa di poetico nel modo in cui ne parlava, qualcosa che ricordava i primi Nas e Jay-z, di Illmatic o Reasonable Doubt. Possibile che non fosse ancora famoso? A 5 anni di distanza ecco Benny The Butcher diventare, probabilmente, il rapper preferito della maggior parte dei vostri rapper preferiti, incensato dai Nas e dai Jay-Z, e ,probabilmente, senza aver ancora raggiunto l’apice del proprio potenziale. “Burden of Proof”, letteralmente l’Onere della Prova, prodotto interamente dal producer californiano Hit-Boy, reduce dalla collaborazione con Nas, sebbene si separi, e non di poco, dall’estetica del suono Griselda (facendo storcere il naso ad alcuni fan accaniti del marchio di fabbrica creato da Gunn), testimonia ed eleva, di fronte ad un pubblico, ormai mainstream, l’eccezionalità del talento e del carisma di Benny, lasciando molti a bocca aperta. Ora, forse, anche chi non riusciva a vedere, offuscato dall’enorme flusso di uscite discografiche che offre il mercato americano, crede: Benny The Butcher è uno di quei fenomeni che nasce ogni quarto di secolo e questo è un altro progetto del rapper di Buffalo in odore di “classico”, da aggiungere alla sua discografia. Parola.
Mentre l’industria musicale si interrogava su come affrontare la crisi dovuta a questa inaspettata pandemia, c’è un CEO di una “piccola” etichetta che il mercato l’ha preso per le corna già da qualche anno, imponendo la sua illuminante visione di marketing e fregandosene di crismi e consuetudini, mosso esclusivamente dal genio, l’istinto e la sicumera di un trafficante nato. Stiamo, ovviamente, parlando di Westside Gunn, mente illuminata dietro la Griselda Records, brand ed etichetta che ha rivoluzionato il mercato discografico americano. Come outsider, l’etichetta di Buffalo è andata a prendersi il titolo di brand musicale più’ influente del 2020. Si perché mentre tutti si domandavano cosa fare, la Griselda, che da diversi anni ha fatto scuola nello spacciare il proprio merchandising e i propri supporti musicali fisici, ha intrapreso lo scatto finale per dominare la scena, dopo un’incredibile maratona iniziata nel 2012. Da quando si è affacciato il 2020 ad ora, infatti, ha già pubblicato 9 ottimi progetti con il suo marchio stampato sopra, inondando il mercato con il proprio prodotto, proprio quando l’industria, senza il revenue principale dei concerti, si scervellava per non chiudere bottega. Dopo “Pray for Paris” e “Fly God Is An Awesome God 2”, il leader ed eclettico MC della Griselda Records, Westside Gunn, pubblica il suo terzo album del 2020 e primo con major, intitolato “Who Made The Sunshine”, onorando il contratto firmato nel 2017 con Shady Records. Un album, come W$G ci ha già abituato, controcorrente, capace di rinfrescare l’Hip Hop vintage, rendendolo inedito (le cui produzioni sono, però, totalmente e incredibilmente “sample free”), rispolverando addirittura, anche, uno Slick Rick ispirato, e che vede la partecipazione, oltre agli altri membri Griselda, di Busta Rhymes, e Jadakiss. Dunque, “Chi Ha Fatto Sorgere il Sole” in una Cultura, ormai depredata e relegata in un angolino dai trend musicali imposti dall’industria, riportando il rap hardcore delle strade nelle classifiche e media mainstream? La risposta è semplice: Westside Gunn. E come recita il suo motto “There is a God And There’s a Fly God, praise Both”!
In un periodo storico come quello in cui stiamo vivendo essere positivi e liberi da ansie e preoccupazioni è un lusso per pochi, ma ci sono degli accorgimenti che potrebbero aiutarci: un’alimentazione sana a base di frutta, della buona marijuana, una predisposizione alla positività e la musica di Larry June e Berner.I due rapper della Bay Area di San Francisco, infatti, hanno deciso di unire le loro forze in questo progetto, intitolato Cooks & Orange Juice, alla cui base ci sono gli ingredienti perfetti per rasserenare gli animi e intraprendere, con mentalità positiva, la propria giornata al meglio, allargando i propri orizzonti. Un modo di affrontare le sfide che, almeno nel caso di questi due rapper, ha permesso loro di raggiungere numerose vittorie e di godersi al meglio la vita. Entrambi, infatti, hanno costruito negli anni una carriera musicale indipendente e hanno lanciato e investito in diversi brand vincenti: uno, Berner, nella coltivazione e distribuzione legale di “cookies” ( marijuana ), l’altro Larry June in succhi di frutta e merchandising incentrato su uno stile di vita sano e “organic”. Questo disco vi farà dimenticare di essere appena entrati a piè pari in autunno e addolcirà le tensioni derivanti dalla paura e le incertezze di questo periodo, catapultandovi sulle spiagge californiane. “Good Job” Larry, “Good Job” Berner!
Uno dei nomi emergenti della scena underground statunitense più originali e creativi è, sicuramente, Lord Jah-Monte Ogbon, MC autoproclamatosi “king of Charlotte”, città della Carolina del Nord, dove si è trasferito dopo l’infanzia trascorsa ad Akron, Ohio. Segnatevi questo nome perché potrebbe realmente sorprendervi e lasciarvi spiazzati, grazie ad un naturale carisma ed una marcata self-confidence, di quelle che non ti aspetti ad un primo approccio. Prendete quest’ultimo progetto, Seventy Fifth & Amsterdam Side A, ad esempio: le rime dall’ironia tagliente di Lord Jah-Monte Ogbon, che alternano spavalderia, riferimenti sessuali espliciti e accenni alla vita di strada, fanno a pugni con momenti più riflessivi e profondi. Tutto ciò accompagnato da un flow originale e ipnotico, che scivola sulle bellissime e ricercate produzioni, ricavate da campioni soul, funk e jazz. L’effetto prodotto da questi contrasti, unito agli eccentrici adlibs, è quello di trasportare l’ascoltatore in un viaggio quasi psichedelico, attraverso vibrazioni abbastanza inedite , quando si approccia questo genere, e, soprattutto, di gran gusto musicale.
Sono tanti i rapper che, a margine della loro attività di artisti, reinvestono i loro soldi in attività imprenditoriali, ma, al contrario, sono pochi quelli che possono dire di essere imprenditori a tempo pieno, che capitalizzano i guadagni nella propria musica come fonte di proventi secondaria. Uno dei più fulgidi esempi è Willie The Kid, fratello minore dell’ emcee veterano affiliato al Wu Tang Clan, LA The Darkman. Il talentuoso rapper di Grand Rapids, Michigan, infatti, a lato della sua lunga attività musicale nella scena underground statunitense, ha intrapreso una carriera imprenditoriale di grande successo in diversi campi, dalla tecnologia alla ristorazione. In “Capital Gains”, che vede la partecipazione, al microfono, dei suoi partner artistici usuali, Action Bronson, Curren$y, Roc Marciano ed Eto e, alle macchine, tra gli altri, quella di nomi d’eccezione come Evidence, V-Don, Dj Muggs e The Alchemist, Willie The Kid ci spiega quale approccio, motivazioni e scelte servono per diventare investitori di successo, partendo, come ha fatto lui, dal fondo. Mentre la maggior parte della platea rimane abbagliata da macchine e gioielli esibiti sui social, veri hustlers e businessmen vi spiegano la differenza capitale tra investire i profitti e sperperare i propri guadagni. Intanto, vi consigliamo di scegliere attentamente i vostri idoli.
Sheek Louch è, a pieno titolo, un monumento di questa cultura: membro del leggendario gruppo di Yonkers, NY, The Lox e della crew D-Block, dopo più’ di venticinque anni di carriera non ha mai perso l’ispirazione per continuare a sfondare beats con le sue barre e per rappresentare la voce delle strade. Sebbene i suoi compari Jadakiss e Styles P abbiano avuto più visibilità a livello mediatico, Sheek Louch rimane il cuore pulsante del collettivo. Coerenza, attitudine hardcore di strada e resilienza sono condensate nelle rime di questo veterano, che a 44 anni dimostra la stessa energia, cazzimma e voglia di divertirsi di quando ha iniziato. Il quarto capitolo della serie di mixtape “Beast Mode”, che vede la collaborazione, oltre che di Jadakiss e Styles P, di Tony Moxberg, Lil Fame degli M.O.P e Ghostface Killah, è potente Rap hardcore che tramanda le fondamenta e i valori di questa Cultura di strada. Sheek Louch è ancora un campione “lineare” dell’Hip-Hop.
La voce di Speranza è arrivata come una benedizione nella scena italiana: la campana che mancava all’appello, capace di affrontare alcuni temi, con una prospettiva e un approccio raro in questo paese. Quando, inizialmente, ti imbatti nella rabbia del tono vocale e nell’intensità delle rime bilingue del rapper di Caserta, nato nelle Banlieue francesi di Behren-lès-Forbach, è come ricevere una combinazione sinistro-destro in bocca. L’Ultimo A Morire, album d’esordio di Speranza, però, oltre a rabbia e forza, rivela un talento lirico, una sincerità e una profondità di livelli nei testi, che si poteva solo presumere dai pochi singoli che hanno lanciato, inaspettatamente, il rapper italo-francese verso il meritato successo. Speranza, infatti, porta una prospettiva inedita, a nostro parere, nel panorama dell’Hip-Hop italiano: riesce a parlare di strada e tematiche affini, con una consapevolezza e un’attitudine , matura, sincera e cosciente di un uomo adulto che ha vissuto abbastanza a lungo e da vicino certe esperienze, per poterne parlare senza glorificarle. Quello di Speranza non è rap di strada fine a sé stesso e autocelebrativo, ma porta con sé l’umiltà, la rabbia e il disagio degli “ultimi” , rivelando in diversi momenti coscienza sociale e una mentalità libera dai pregiudizi e dalle superficialità della società attuale, dominata dai social. D’altronde uno che dice “se non svolto con il rap, torno a lavorare in cantiere” è già più unico che è raro in una scena già colma di arrivisti, e merita tutta la nostra stima e gli auguri, non solo per lui, ma per tutto l’Hip Hop italiano, affinché sfondi.